Materiali per il Dizionario minimo della Guerra di Liberazione. Compendio 1945
Unione Sovietica.
La prigionia in
mano alla U.R.S.S. è quella che ha inciso più a fondo nel retaggio del sistema socio-politico del dopoguerra.
Prima che scoppiasse la guerra fredda, nella metà del 1946, già si avvertivano
i sintomi di quelle che saranno le polemiche spesso roventi del dopoguerra. Il
20 agosto 1946, dopo un anno di attesa e di aspettative sempre più crescenti,
quando tutti gli altri Paesi belligeranti avevano restituito in grandissima
parte i prigionieri in loro mani, un comunicato del Governo di Mosca molto
sobrio ed asciutto fa presente che tutti i prigioneri italiani in mano alla
URSS erano stati restituiti, tranne un esiguo numero, circa 27, tra ufficiali e
soldati, considerati criminali di guerra ed in attesa di giudizio. Tra questi anche
un cappellano militare, Padre Brevi, considerato dai sovietici una spia del
Vaticano.
In Italia le
aspettative erano altre. Si aspettava il rientro di circa 70/80 mila
prigionieri dalla Russia. A tutto il 1946 erano stati restituiti 21.000
soldati, di cui circa 11.000 appartenenti all’ARMIR i restanti liberati
dall’Armata Rossa dai campi di concentramento tedeschi nella sua avanzata verso
occidente.
La polemica
divampò violentissima, e si manifestò in modo particolare nello scontro
politico tra i partiti di sinistra, in particolare il PCI e i partiti del
centro, in particolare la Democrazia Cristiana. L’accusa principale era che la
URSS tratteneva i prigionieri italiani come schiavi, per ragioni ideologiche.
La realtà, emersa
negli anni novanta all’indomani del crollo della URSS e alla parziale apertura
degli archivi sovietici, era ben diversa da quella ipotizzata in Italia. La
URSS aveva ragione nel sostenere che aveva restituito tutti i prigionieri
italiani in suo possesso. Infatti è stato documentato[1] che l’Armata
Rossa, nella sua avanzata verso occidente catturava circa 11.000/11.500 soldati
dell’ARMIR e li avviò ai campi di smistamento ( le cosiddette marce del Davai).
Nei campi di smistamento entrarono quelli che poi vennero restituì, tranne una
percentuale dell’1% che morì per malattie o cause naturali.[2]
La vicenda dei
prigionieri in mano alla URSS continuò in temi sempre aspri fino al 1954
quando, dopo la morte di Stalin, furono restituiti gli ultimi prigioneri, circa
10, trattenuti con pretesti e motivi vari.
Il retaggio di questo particolare segmento del
V fronte della Guerra di Liberazione è estremamente pesante. L’Italia inviò
prima un Corpo di Spedizione, poi una Arma che raggiunse circa i 200.000. Nel
corso delle offensive sovietiche del novembre-dicembre 1942 – gennaio febbraio
1943, che si conclusero con la caduta di Stalingrado, che determinarono la
svolta della guerra in Oriente, le forze italiane furono annientate. Circa
100.000 uomini riuscirono a salvarsi tramite una ritirata, la celeberrima
ritirata di Russia, ma altrettanti rimasero sul campo. Non per le vicende della
guerra, ma in virtù della insipienza dei Comandati italiani sul campo, delle
imposizioni tedesche e di un male interpretato senso dell’onore militare. Composte
tutte da forze di fanteria, senza mezzi corazzati e meccanizzati, il compito
era quello di resistere fino allo stremo sulle posizioni del Don. Una volta che
la battaglia avrebbe rilevato le direttrici di attacco in profondità dell’attaccante
sovietico, avrebbero dovuto intervenire le forze mobili tedesche, per chiudere
le falle. Il compito delle forze Italia quindi fu assolto. L’errore fu il non
aver dato di arrendersi sul posto. Sarebbe stata la salvezza di oltre 80.000
soldati italiani. Al contrario, messisi in marcia verso occidente, quanto
contemporaneamente i sovietici provvedevano a distruggere tutta l’organizzazione
logistica di retrovia con puntate di forze mobili, la speranza di sopravvivere
nella steppa d’inverno erano presso che nulle. Infatti i comandi sovietici
locali non inseguirono i soldati italiani in marcia, conviti e sicuri che la
steppa, il cosidetto generale Inverno, li avrebbe uccisi. Come in realtà
accadde. Il prezioso retaggio di questo segmento del V fronte è quello che
occorre avere sempre autonomia decisionale quando si partecipa in una coalizione
fi forze internazionali ed occorre sempre, in lealtà con gli alleati,
preservare l’interesse nazionale. Un retaggio che permeò nel dopoguerra la
partecipazione delle forze nazionali alle cosiddette Missioni di Pace, coalizioni
internazionali sotto egida id organizzazioni sovranazionali.
[1]
UNIRR, Rapporto UNIRR, 1995. In Italia la cifra dei presunti prigionieri era
stata fissata in circa 84.000. Dei 201.0000 militari italiani presenti al
fronte ai primi di dicembre, come attestano i documenti della Direzione di
Commissariato dell’ARMIR sulla forza vettovagliata, ne erano rientrati in
Italia 101.000. Pertanto considerate le perdite, a larghe spanne, la cifra dei
prigioneri doveva essere circa 84.000 considerate le perdite. In realtà dei
101.000 soldati mancati, 90.000 erano Caduti nella ritirata e circa 11.000
raccolti come prigioneri dai sovietici, che in effetti restituirono. Vds. Coltrinari
M., Le Vicende dei Militari Italiani in URSS,
Roma, Archepares, 2021.
[2]
Il tasso di mortalità nella prigionia in URSS è più o meno quello delle altre
prigionie in mano della Gran Bretagna, Francia e Stati uniti.