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lunedì 31 ottobre 2022

La Prigona in URSS. Il retaggio

Materiali per il Dizionario minimo della Guerra di Liberazione. Compendio 1945




Unione Sovietica.

La prigionia in mano alla U.R.S.S. è quella che ha inciso più a fondo nel retaggio  del sistema socio-politico del dopoguerra. Prima che scoppiasse la guerra fredda, nella metà del 1946, già si avvertivano i sintomi di quelle che saranno le polemiche spesso roventi del dopoguerra. Il 20 agosto 1946, dopo un anno di attesa e di aspettative sempre più crescenti, quando tutti gli altri Paesi belligeranti avevano restituito in grandissima parte i prigionieri in loro mani, un comunicato del Governo di Mosca molto sobrio ed asciutto fa presente che tutti i prigioneri italiani in mano alla URSS erano stati restituiti, tranne un esiguo numero, circa 27, tra ufficiali e soldati, considerati criminali di guerra ed in attesa di giudizio. Tra questi anche un cappellano militare, Padre Brevi, considerato dai sovietici una spia del Vaticano.





In Italia le aspettative erano altre. Si aspettava il rientro di circa 70/80 mila prigionieri dalla Russia. A tutto il 1946 erano stati restituiti 21.000 soldati, di cui circa 11.000 appartenenti all’ARMIR i restanti liberati dall’Armata Rossa dai campi di concentramento tedeschi nella sua avanzata verso occidente.

La polemica divampò violentissima, e si manifestò in modo particolare nello scontro politico tra i partiti di sinistra, in particolare il PCI e i partiti del centro, in particolare la Democrazia Cristiana. L’accusa principale era che la URSS tratteneva i prigionieri italiani come schiavi, per ragioni ideologiche.

La realtà, emersa negli anni novanta all’indomani del crollo della URSS e alla parziale apertura degli archivi sovietici, era ben diversa da quella ipotizzata in Italia. La URSS aveva ragione nel sostenere che aveva restituito tutti i prigionieri italiani in suo possesso. Infatti è stato documentato[1] che l’Armata Rossa, nella sua avanzata verso occidente catturava circa 11.000/11.500 soldati dell’ARMIR e li avviò ai campi di smistamento ( le cosiddette marce del Davai). Nei campi di smistamento entrarono quelli che poi vennero restituì, tranne una percentuale dell’1% che morì per malattie o cause naturali.[2]

La vicenda dei prigionieri in mano alla URSS continuò in temi sempre aspri fino al 1954 quando, dopo la morte di Stalin, furono restituiti gli ultimi prigioneri, circa 10, trattenuti con pretesti e motivi vari.

 Il retaggio di questo particolare segmento del V fronte della Guerra di Liberazione è estremamente pesante. L’Italia inviò prima un Corpo di Spedizione, poi una Arma che raggiunse circa i 200.000. Nel corso delle offensive sovietiche del novembre-dicembre 1942 – gennaio febbraio 1943, che si conclusero con la caduta di Stalingrado, che determinarono la svolta della guerra in Oriente, le forze italiane furono annientate. Circa 100.000 uomini riuscirono a salvarsi tramite una ritirata, la celeberrima ritirata di Russia, ma altrettanti rimasero sul campo. Non per le vicende della guerra, ma in virtù della insipienza dei Comandati italiani sul campo, delle imposizioni tedesche e di un male interpretato senso dell’onore militare. Composte tutte da forze di fanteria, senza mezzi corazzati e meccanizzati, il compito era quello di resistere fino allo stremo sulle posizioni del Don. Una volta che la battaglia avrebbe rilevato le direttrici di attacco in profondità dell’attaccante sovietico, avrebbero dovuto intervenire le forze mobili tedesche, per chiudere le falle. Il compito delle forze Italia quindi fu assolto. L’errore fu il non aver dato di arrendersi sul posto. Sarebbe stata la salvezza di oltre 80.000 soldati italiani. Al contrario, messisi in marcia verso occidente, quanto contemporaneamente i sovietici provvedevano a distruggere tutta l’organizzazione logistica di retrovia con puntate di forze mobili, la speranza di sopravvivere nella steppa d’inverno erano presso che nulle. Infatti i comandi sovietici locali non inseguirono i soldati italiani in marcia, conviti e sicuri che la steppa, il cosidetto generale Inverno, li avrebbe uccisi. Come in realtà accadde. Il prezioso retaggio di questo segmento del V fronte è quello che occorre avere sempre autonomia decisionale quando si partecipa in una coalizione fi forze internazionali ed occorre sempre, in lealtà con gli alleati, preservare l’interesse nazionale. Un retaggio che permeò nel dopoguerra la partecipazione delle forze nazionali alle cosiddette Missioni di Pace, coalizioni internazionali sotto egida id organizzazioni sovranazionali.



[1] UNIRR, Rapporto UNIRR, 1995. In Italia la cifra dei presunti prigionieri era stata fissata in circa 84.000. Dei 201.0000 militari italiani presenti al fronte ai primi di dicembre, come attestano i documenti della Direzione di Commissariato dell’ARMIR sulla forza vettovagliata, ne erano rientrati in Italia 101.000. Pertanto considerate le perdite, a larghe spanne, la cifra dei prigioneri doveva essere circa 84.000 considerate le perdite. In realtà dei 101.000 soldati mancati, 90.000 erano Caduti nella ritirata e circa 11.000 raccolti come prigioneri dai sovietici, che in effetti restituirono. Vds. Coltrinari M., Le Vicende dei Militari Italiani in URSS, Roma, Archepares, 2021.

[2] Il tasso di mortalità nella prigionia in URSS è più o meno quello delle altre prigionie in mano della Gran Bretagna, Francia e Stati uniti.

giovedì 20 ottobre 2022

Lezione appresa. "Passano li tempi ma l'homini sono sempre li stessi"

 Ancora una volta si è constatato che è inopportuno esporre tesi di storia che non siano in linea con quella ufficiale. Occorre sempre sincerarsi del grado di apprendimento e del livello di studio di chi si ha di fronte. Se questi, che può anche essere un grande personaggio, un leader, di vastissima preparazione, peggio ancora uno dei protagonisti di programmi di Storia della Televisione,  ma che è digiuno di Storia Militare, occorre essere prudenti. Egli è il portato di quanto appreso su banchi di scuola, all'università, e nel corso della sua esperienza, e sopratutto se opera nel mondo dello spettacolo maestro di quello che gli spettatori si vogliono sentire dire, non quello che è necessario dire. A costui non si potrà mai esporre punti di vista che non siano in linea con il portato del suo bagaglio culturale, men che meno se le circostanze siano da evento sociale, o incontro mondano, o comunicativo Le reazioni sono sempre negative, offensive, conflittuali, di chi non accetta che qualcuno abbia condotto studi più approfonditi, documentati, in una materia a lui estranea, che minaccia l'abbassamento dell'audience.

 Asserire che durante la Prima Guerra Mondiale, il Vaticano sia stata una centrale di spionaggio austro-ungarico, arrivata fino nelle stanze papali ad operare tramite un ascoltatissimo cameriere segreto partecipante ( che costò all'Italia l'affondamento in porto di due corazzate, La Benedetto Brin, e la Leonardo da Vinci) significa esporsi  al dileggio e quasi alla disistima, con il corollario di aver rovinato la bella atmosfera da salotto fra i convenuti. Insistere su questa tesi citando il cosiddetto  Colpo di Zurigo del 1917  significa essere masochisti. 

La lezione appresa è chiara: analisi attenta di chi sta di fronte; la via migliore è assecondarlo e cercare di evitare ogni aggancio su temi che ci sono cari. Oppure, non farsi coinvolgere e stare lontano da simili circostanze. Del resto Machiavelli non per altro asseriva che "passano li tempi, ma l'homini sono sempre li stessi"

lunedì 10 ottobre 2022

Caporeto: un convegno di studi



 Una delle relazioni avrà riverberi della tesi sostenuta al master di 1° Liv di Storia Militare Contemporanea attivato presso la Università degli Studi N. Cusano Telematica Roma.